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RAI & ALBANIA
Edicioni RAI-ERI
2002
(Framento)
“Il Quarto Plenum”
Per quanti erano abituati a sentire sul collo il fiato dello stato comunista non era difficile rendersi conto, nei primi giorni di marzo del 1973, che la sua struttura stava traballando pericolosamente. Tutto faceva pensare all’inizio di un terremoto.
Il primo segnale fu come l’esplosione di un tuono. Un boato spaventoso che scaturiva dal cuore della terra. Un mostro urlante che tentava di emergere in superficie, spostando con le mani e spingendo con le spalle la grande e pesante massa di sassi, acque, fango, rocce, lava, radici. Per respirare l’aria.
Così aveva urlato per l’inquietudine Enver Hoxha, l’uomo più potente del regime.
Lo stato, creatura a lui sottomessa, temeva le sue ire. E si preparava a portare a termine ogni suo ordine.
Dopo aver assistito alla rappresentazione teatrale dell’opera “Le macchie scure”, Hoxha aveva richiamato severamente gli organi del potere, criticando il significato politico della trama. A suo parere, la storia di un medico incerto se curare o meno una persona malata contrastava con la morale impartita dal partito agli albanesi. Secondo la sua teoria, l’autore dell’opera e specialmente gli attori e la regia, erano riusciti nell’intento di creare la figura di un medico incapace di sentire sulla coscienza il peso del suo comportamento. La cosa che inquietava maggiormente il dittatore era l’aspetto umano del personaggio, la sua mancanza di solidarietà e il tentativo di farlo passare per un difetto ordinario, in modo da renderne il ritratto artistico accettabile, vicino, tollerabile.
“Non deve essere così!” era esploso Hoxha. Il medico aveva commesso un crimine e nessun artista di talento, né il buon nome di un teatro, né alcuna regia moderna poteva convincere il partito del contrario.
La conclusione del discorso di Enver Hoxha fu che il dramma delle macchie scure altro non era che un portatore, un conduttore di macchie nere.
Ma l’onnipotente albanese aveva discusso della questione esclusivamente all’interno della sua ristretta cerchia di collaboratori della direzione, senza che il popolo ne venisse a conoscenza. Neppure l’organizzazione del partito ne fu informata. Tutto sembrava uguale a prima. Gli albanesi lavoravano come sempre la mattina e il pomeriggio, e la sera ascoltavano il notiziario della televisione albanese, per poi passare ai programmi della Rai.
Dopo pochi giorni Hoxha prese di nuovo la parola. Questa volta disse che nella vita del paese si erano manifestati i segni della penetrazione dell’ideologia borghese revisionista e che era rimasto impressionato dalla risposta del segretario ideologico del partito di Tirana, quando gli avevano chiesto quale fosse il fattore più pericoloso in quel momento per l’Albania, se il conservatorismo o il liberalismo.
L’uomo, famoso autore di opere teatrali e, secondo il codice del partito, responsabile di quanto stava accadendo nelle istituzioni artistiche della capitale, aveva dichiarato che la maggiore minaccia per lo stato era rappresentata dal conservatorismo.
Enver Hoxha si era trattenuto dall’impulso di strapparsi irosamente i capelli. La sua opinione differiva da quella del segretario. Nel corso di una seconda riunione più ampia aveva dichiarato che l’Albania rischiava di essere messa in difficoltà dal mondo straniero borghese revisionista. Tutto si stava compiendo nel nome della liberalizzazione.
L’11° Festival e il dramma “Le macchie scure” testimoniavano la penetrazione di questa influenza pseudoliberale. Ciò che preoccupava maggiormente il leader era il fatto che i telespettatori e l’intera classe politica, compreso il segretario principale per l’ideologia, Ramiz Alia, non solo si erano adeguati all’anomalia della situazione, applaudendo il festival e il dramma, ma non si erano neppure degnati di riflettere sulla forza dell’influenza negativa proveniente dall’estero.
Questa volta, le urla di Hoxha si udirono ben oltre lo stretto gruppo dei suoi collaboratori. La struttura statale si risvegliò e si preparò all’attacco della direzione guidata dall’uomo che, a trent’anni dalla fine della guerra, veniva ancora chiamato “comandante”.
Alla fine di marzo si riunì il plenum del Comitato Centrale del Partito, in cui il discorso di Enver Hoxha fu l’argomento principale all’ordine del giorno. Si constatò che l’Albania socialista era minacciata dal grande accerchiamento borghese revisionista e che attraverso questa pressione si tentava di indebolire il potere popolare per favorire il ritorno di un regime capitalista, sfruttatore e antipopolare. Nell’impossibilità di raggiungere lo scopo con interventi militari, infiltrazione di spie o di bande armate, il nemico aveva individuato il mezzo ideale nella televisione straniera. Il quella occasione, il presidente citò un articolo pubblicato da un giornale austriaco alcuni giorni prima, che affermava esattamente la sua tesi, e cioè: “quello che in Albania non riescono a fare le baionette lo sta facendo la televisione straniera”.
Hoxha si riferiva, nel suo rapporto, a tre fonti pericolosamente contaminate: la Radiotelevisione albanese, il giornale “Drita” insieme ad una parte della Lega degli Artisti e degli Scrittori, e i dirigenti dell’Unione della Gioventù comunista. Ma la sua collera più feroce era rivolta alla Televisione Albanese, principale organizzatrice del festival di fine anno. Ce l’aveva con coloro che, secondo lui, a causa della loro professione erano obbligati a seguire maggiormente la televisione straniera, subendone l’influenza. Per Enver Hoxha, avvicinarsi ad un televisore che non presentava la sigla albanese era come esporsi alle aggressive radiazioni nucleari. Ecco perché molti dipendenti della Tv albanese erano considerati ideologicamente malati e pertanto bisognosi di cure.
Con il giornale “Drita” fu altrettanto duro, anche se raramente si dilungò in discorsi di rimprovero. Era irritato con la Lega degli Artisti e degli Scrittori, editrice della pubblicazione. Dedicò particolare attenzione ai versi di una poesia di un giovane poeta molto conosciuto, che giudicò pesantemente influenzato dal filosofo francese Jean Paul Sartre, a detta di Hoxha personalità decadente. I versi citati parlavano di una inquietudine esistenziale dell’autore, bandita dalla morale del partito, il quale affermava che il suo Io camminava spesso verso il nulla.
Enver Hoxha disse chiaramente di non aver gradito la diffusione dell’idea secondo cui la minaccia più grande per l’Albania era il conservatorismo. In quel momento era il liberalismo a rappresentare un rischio per il paese e per le vittorie del partito. Eppure, sottolineò, era necessario combattere in entrambe le direzioni.
Approfittando della debolezza da lui individuata nelle “macchie scure”, Hoxha richiamò l’attenzione sul fatto che le conseguenze della pressione borghese capitalista avevano lasciato il segno anche sulla gente semplice e specialmente sulla gioventù, che in gran parte aveva abbandonato il tradizionale abbigliamento di gusto nazionale per seguire la moda dettata dalle emittenti estere. La vista di molti giovani, vestiti con pantaloni a zampa d’elefante e con camicie sopra i pantaloni stretti da alte cinture, offendeva gli anziani. Perfino il passato eroico del popolo. Questo significava che essi erano stati influenzati dagli spettacoli borghesi revisionisti e per questa ragione dovevano essere curati.
Il fragore del tuono era terminato. Ora iniziava il tremito della terra, lo scricchiolio degli edifici criticati, le crepe nei muri e la clamorosa caduta.
Secondo una regola ben nota alla maggior parte dei cittadini, presto avrebbe avuto inizio la rottura delle ossa.
La catastrofe che si abbatté sull’Albania si chiamava “Quarto Plenum”.
Nel partito unico del paese si erano create due correnti di pensiero, la cui convivenza non riuscì a superare i tre anni. Il fossato fra di loro, trasformatosi in una voragine, era stato causato dalle televisioni straniere, soprattutto dalla Rai.
In verità esclusivamente la Rai. La televisione jugoslava, potenziata tecnologicamente per dominare la parte più estesa del territorio albanese, non fu citata da Enver Hoxha come un potenziale pericolo. La televisione greca, che per via della sua scadente qualità non copriva neppure tutto lo spazio del suo paese al confine con l’Albania, non possedeva la volontà e la forza di oltrepassare la frontiera.
Si può dire che il Quarto Plenum fu il plenum contro la Rai. La bandiera dei liberali era la televisione italiana, perciò il simbolo doveva essere immediatamente strappato dalle loro mani. Ma Hoxha era uno di quelli che non si accontentava di misure parziali, e poi la bandiera rovesciata poteva essere un’arma contro chi l’amava.
In questo modo iniziò la caccia ai liberali, a chi aveva desiderato aprire il paese ad una vita più libera, ad un pluralismo politico. “Le streghe” da colpire quali principali artefici della magia dell’influenza straniera borghese revisionista erano di convinzioni comuniste. Un vero inferno assegnò ai loro destini una strada che li avrebbe condotti alla morte. Il partito al potere, per punirli, alimentava la fiamma dei suoi militanti e manipolava l’opinione pubblica. Un meccanismo vendicativo allontanò per primi i comunisti pacifici dai posti chiave, estromettendoli successivamente dagli alti forum del partito. Più tardi negò loro il diritto ad un altro posto di lavoro e annullò il valore delle loro tessere politiche. Da quel momento il numero di coloro che venivano gettati nel precipizio aumentò: furono internati in villaggi lontani, dove abitavano nelle stalle del bestiame, o venivano immediatamente arrestati, superando la fase dell’internamento. Ma anche tra gli internati le manette non tardavano più di alcuni mesi ad arrivare.
Chi finiva dietro le sbarre doveva aspettarsi all’interno del carcere un altro inferno, che si distingueva in base agli anni di prigione comminati e al destino finale dei condannati: otto, dieci, quindici, venti, venticinque anni in cella o nei campi di lavoro, oppure la condanna a morte.
Ma la fine era altrettanto infernale, non meno orrenda di tante altre. Poteva essere una morte in carcere causata da malattie, torture, fucilazioni, e non finiva lì. Spesso al corpo non veniva concessa neppure una degna sepoltura in una bara. Lo si gettava in una fossa, generalmente scavata in un luogo segreto che per nessun motivo doveva essere rivelato ai familiari e che non poteva essere indicato né conservato in mappe o documenti d’archivio. Doveva soltanto essere dimenticato, perfino dalle persone che scavavano e coprivano di terra i morti.
Così la tanto sognata primavera del 1973 si trasformò in un inverno tremendo. Nessun fiore vide la luce. L’orrore iniziò a marzo e durò per mesi e anni.
Questo periodo di terrore affondava le radici nel dopoguerra quando aveva designato quale sua vittima la classe politica dei vinti. Cioè gli anticomunisti. Trent’anni dopo fu ancora più feroce. Non cambiò l’identità degli autori ma quella delle vittime: questa volta furono gli stessi comunisti ad essere colpiti.
La rivoluzione culturale albanese, forse una copia o una imitazione della rivoluzione culturale maoista, concentrò la sua forza nelle file degli studenti, amanti appassionati della televisione italiana ed i più grandi sostenitori dell’apertura del paese ad un tipo di vita europeo occidentale.
Con loro furono usati tutti i mezzi.
I principali esponenti della pittura contemporanea, qualificati con l’etichetta ideologica di “modernisti”, finirono in carcere nello spazio di due anni. Gli arresti iniziarono anche tra i nuovi scrittori e poeti, accusati spesso di agitazione e propaganda contro lo stato e di opposizione ai metodi del realismo socialista, unico modello legale di scrittura. Furono incarcerati anche diversi musicisti e cantanti, ma con loro la vendetta sembrò più contenuta. Oggetto di collera erano soprattutto gli attori e i registi del cinema e del teatro drammatico.
Altri personaggi rappresentativi del mondo dell’arte e della cultura furono allontanati dalle città nelle quali vivevano per essere deportati in zone lontane del paese, dove il controllo poliziesco e la pressione di una opinione pubblica chiusa e fanatica erano soffocanti. Dopo aver licenziato e internato il dirigente dell’organizzazione giovanile, fu deciso per la nuova generazione “un lavoro politico convincente”. Questo significava l’organizzazione di riunioni chiarificatrici, gli appuntamenti individuali, fino all’impiego pubblico dei manifesti in cui si criticavano le persone. Non era altro che il noto “tazebao” della rivoluzione culturale cinese in versione albanese. Uno slogan scritto in rosso, collocato nei corridoi più importanti delle istituzioni riportava le parole “Ognuno scriva con coraggio e in lettere maiuscole cosa pensa del lavoro e delle persone”. Era essenzialmente una istigazione alla delazione.
Per tenere viva la psicosi della colpevolizzazione e della sottomissione giovanile fu dichiarata guerra agli spettacoli stranieri, nella cui categoria si trovavano l’ascolto alla radio di canzoni straniere, la loro interpretazione, il “rock and roll” e il “twist”. Erano permessi soltanto il valzer e il tango. Era considerato imitazione straniera indossare pantaloni in stile “cowboy”, usare cinture larghe e berretti diversi da quelli standard. Erano permessi solo i cappelli preferiti da Lenin tre quarti di secolo prima, di tipo quasi militare. Essendo lo stesso Enver Hoxha un uomo elegante e di grande gusto nel vestirsi, distintosi in gioventù a Bruxelles e a Parigi per l’uso del “borsalino”, non esercitò particolare pressione sugli amanti di questo tipo di copricapo, che comunque fu usato sempre meno. Il modello di abbigliamento dell’uomo della gerarchia politica e statale era un costume confezionato in un tessuto grezzo di infima qualità denominato “traliccio”, secondo il modello dell’uniforme cinese.
In omaggio al gusto pechinese, unico alleato rimasto in quel momento allo stato albanese, dall’elenco delle mode proibite di provenienza straniera fu esclusa la camicia sopra i pantaloni. Infatti, i cinesi usavano molto questo tipo di abbigliamento.
Furono messi sotto osservazione tutti gli uomini ed i ragazzi che amavano portare i capelli lunghi. Lo stesso premier Mehmet Shehu organizzò nella capitale un raduno con gli studenti universitari, etichettando i giovani che non portavano il taglio corto con un nome ridicolo. Il nuovo soprannome si diffuse immediatamente attraverso le grandi falangi radicali, all’attacco continuo delle imitazioni straniere. In quei tempi di lotta acerrima contro i capelli lunghi, in Albania non era necessario portare delle vere e proprie capigliature all’avanguardia, ma bastavano pochi ciuffi sulla fronte o dei capelli leggermente più lunghi sul collo per essere indicati come pericolosi strumenti della borghesia revisionista.
Nella lista degli spettacoli stranieri proibiti c’era anche la televisione italiana. Tutti i delegati del partito iniziavano e chiudevano i loro discorsi con l’esortazione a non guardarla. La Rai impersonava la borghesia, il capitalismo e l’imperialismo messi insieme. Lo strumento dell’aggressione, della minaccia e del furto di libertà per gli albanesi. Insomma, il diavolo. Per gli emissari del partito non costituiva un pericolo tale da eliminarne i notiziari. Nella loro mira c’era Sanremo e Canzonissima. Per quest’ultima era facile convincere i telespettatori che sulla stessa stampa italiana era scoppiata una polemica causata dalla qualità sempre più scadente dello spettacolo musicale. I delegati più colti usavano nei loro discorsi anti-Rai alcuni termini usati dalla stampa italiana, approfittando senza scrupolo della rima in italiano fra “pessima” e “canzonissima”.
Forse con Sanremo la guerra propagandistica era più difficile. La trasmissione godeva di grande popolarità tra il popolo e di una indiscussa autorità artistica tra i musicisti albanesi. Anche se alcuni di loro erano stati imprigionati o spaventati con internamenti e richiami nei comitati di partito, la maggior parte esprimeva in privato grande apprezzamento per questo importante evento musicale e mondano.
In occasione di incontri pubblici, gli emissari del partito portavano con sé dei registratori. Dopo lunghi discorsi lo accendevano, invitando i frequentatori delle università, delle istituzioni o dei licei ad ascoltare la canzone italiana “Chi non lavora, non fa l’amore” e a confrontarla con quella dell’11° Festival albanese, che parlava della pioggia. Per loro la somiglianza era totale. Si sosteneva così che il cantante albanese aveva imitato la canzone “reazionaria” ed “antilavorativa” di provenienza italiana.
Gli uomini della propaganda, con i loro grandi registratori, divennero ben presto oggetto dello humour e delle provocazioni degli studenti. Questi ultimi, che amavano molto la canzone di Celentano, tentavano di provocare un nuovo appuntamento con i delegati del partito per tendere loro una trappola. Facevano accendere gli apparecchi, fingendo di essere interessati a come nell’ultimo festival albanese era stata imitata “la cultura borghese”. Gli studenti ascoltavano con attenzione e poi pregavano il delegato del partito di ripetere ancora la canzone, per poter comprendere meglio “la macchia straniera”. E così di seguito per molte volte.
Intanto, nelle alte sfere del potere si era messa in funzione una macchina ben più sofisticata della folla dei delegati. L’atteggiamento apparentemente indifferente o neutrale tenuto da Enver Hoxha, che lasciava ai liberali il controllo della Radio Televisione, della Lega degli Scrittori e degli Artisti, dei due organi di stampa più diffusi nel paese, nonché del potente giornale del partito “La Voce del Popolo”, permetteva di affrettare l’installazione, in diverse città, di impianti rinforzanti e di ripetitori della televisione italiana. Era un’astuzia per mettere in luce gli autori della deviazione politica e poter così selezionarli e colpirli.
La macchina propagandistica diffondeva l’opinione secondo cui l’impiego dei nomi Fatos e Zana per i primi radio transistor albanesi e per le nuove caramelle non erano altro che riproduzioni del culto della personalità esercitato dall’ex direttore della Radiotelevisione o dall’ex-segretario ideologico di Tirana, ormai espulsi dal partito e vicini all’internamento. Fatos, sussurrava la macchina diabolica, era il nome del figlio del direttore e Zana quello della figlia del segretario. L’aggregato calunniatore sosteneva che proprio attraverso i loro bambini i pseudoliberali cercavano di provocare la degenerazione dell’Albania socialista e la sua trasformazione in un paese capitalista. Secondo la logica di questa propaganda, il progetto di distruzione si stava compiendo nel campo della cultura tramite “Fatos”, cioè la radio e la televisione straniera, e attraverso le caramelle “Zana” in campo economico.
Un’altra astuzia del meccanismo calunniatore era la strumentalizzazione delle diversità naturali ed eterne fra generazioni, sostenendo che uno dei progetti del gruppo deviatore nel partito, ormai sconfitto, era la negazione del grande contributo che i padri avevano dato per la liberazione del paese dagli invasori italiani e tedeschi e per la ricostruzione dell’Albania. Provocati da questo clima, si verificarono diversi incidenti. Su un treno, alcuni giovani avevano tolto il cappello, simbolo della tradizione nazionale, ad alcune persone anziane. Questo episodio, seppure isolato, fu ingigantito agli occhi della pubblica opinione.
Ma la collera più forte fu riservata alla canzone del mandorlo che non fioriva. “E’da trent’anni che produce frutti”, disse un alto dirigente, riferendosi al partito unico. Ormai, l’ira del potere era esplosa nel 1973 in una violenza verbale eccezionale: il gruppo dei liberali non era considerato altro che un’unione antipartito. Questo significava che dal punto di vista penale, per i tribunali del regime, erano un “gruppo nemico”. In poche parole, persone false, spie degli americani e degli italiani.
Per loro si stavano preparando le celle del carcere e la loro totale eliminazione. Il loro sterminio definitivo.
Ora toccava alla Rai. Ma questa battaglia era tutt’altro che facile. Per le onde che penetravano massicciamente dall’Adriatico infilandosi attraverso le antenne nelle case degli albanesi, spesso anche delle più semplici, non erano mezzi efficaci e sicuri di vittoria. Allora il regime, desideroso di condurre il gioco fino in fondo, decise diverse azioni di contrasto, che in realtà potevano soltanto limitare l’effetto delle televisioni straniere, specialmente quello della più forte, la Rai.
La prima mossa fu la campagna di sensibilizzazione contro la composizione delle antenne televisive. Esse non dovevano essere formate da più di cinque elementi. Gli unici consentiti erano il riflettore, il vibratore e i tre detector. L’utilizzo del sesto elemento costituiva un reato e bastava un sospetto per rischiare di trovarsi in casa compagnie indesiderate come i rappresentanti dell’organizzazione del Fronte, un organo del partito che operava nel quartiere, abilitato alla convocazione presso i propri uffici.
Le nuove regole precisavano fin nei minimi particolari perfino la direzione delle antenne: dovevano essere rivolte verso Tirana, dalla cui direzione era noto che proveniva il segnale della Radiotelevisione Albanese. Nel caso avessero accertato l’inadempienza all’ordine, le sgradite visite delle squadre di controllo si sarebbero ripetute.
Una ulteriore disposizione proibiva di montare più di un’antenna su una casa.
L’azione di attacco contro i piccoli apparecchi di ricesione non tardò a dare dei risultati. Il numero di appassionati della televisione straniera diminuì, nelle case iniziarono le discussioni, spesso anche molto accese, tra coloro che desideravano seguire la Rai e quelli che si sentivano in dovere di obbedire “agli ordini del partito”. Sembrò che il regime avesse trionfato. Ma il periodo “felice” non durò più di due o tre mesi, perché in ampi strati della popolazione si iniziò segretamente a cercare una via d’uscita. Fu accertato che era possibile captare il segnale della Rai modificando l’antenna consentita dalla legge per la ricezione della tv albanese mediante l’inserimento al suo interno di un congegno denominato “vibratore”. Questa modifica non poteva essere notata o provata dall’organizzazione del Fronte o dai volontari della campagna contro le antenne. Queste ultime captavano la televisione albanese, anche se non perfettamente, come invece sarebbe stato possibile in altra situazione. I cittadini potevano così seguire con una sola antenna la Rai e la televisione del loro paese, che comunque continuavano ad amare.
Fu trovata una soluzione anche ad un’altra difficoltà. Nelle città in cui la direzione della televisione albanese era troppo visibile per non essere distinta da quella della Rai, che impediva la visione della stazione locale, si iniziò a praticare il movimento notturno delle antenne. A questo scopo gli albanesi costruirono dei lunghi tubi, che mettevano sui davanzali delle finestre o sui balconi. Il cilindro terminava con un’antenna che si inseriva in un cuscinetto girevole e, in un altro punto, più in alto, si attaccava con delle fasce di ferro.
Ma gli esperimenti non finivano qui: si nascondevano i tubi di ferro nei camini e le antenne sbucavano dalle canne fumarie, esattamente da dove ci si poteva aspettare di vedere uscire del fumo.
In questo modo, quando calava la notte o giungeva l’ora del “film del lunedì” o dei concerti, ci si dirigeva verso il balcone e con un leggero movimento della mano si orientava l’antenna verso l’Italia, posizione imparata e ricordata “ad occhi chiusi”. In questo modo, se qualcuno delle squadre di controllo si accorgeva del cambiamento e si presentava in casa del “colpevole”, c’era il tempo per riposizionare l’antenna verso Tirana. Quasi sempre i controllori rimanevano sconcertati nel constatare la posizione legale dell’antenna ed erano costretti ad allontanarsi increduli, borbottando e scuotendo la testa, chiedendosi se avessero visto realmente l’antenna in direzione dell’Italia.
Le maggiori difficoltà le doveva superare chi, a causa della posizione geografica della città, della casa o del piano dell’abitazione, non riusciva a godere della visione della Rai. Essi erano costretti a montare le antenne sui terrazzi o sugli alberi più alti, per cui era necessario arrampicarsi sui tetti o sui bordi di terrazzi privi di muri di protezione per cambiarne l’orientamento. Era un’impresa difficile, pericolosa e anche frequente, specialmente quando aveva inizio il festival di Sanremo, debuttava qualche nuovo serial o incominciava il campionato di calcio, italiano o mondiale.
Contemporaneamente si diffuse a macchia d’olio, clandestinamente, lo schema di una nuova antenna speciale chiamata, come sempre in simili casi, universale. Essa riusciva a ricevere normalmente sia la televisione albanese che la Rai e la televisione jugoslava.
In quel periodo giungevano ogni giorno al partito, dove era nata ed operava a pieno ritmo la raffinata macchina della repressione televisiva, preoccupanti conferme che, nonostante i buoni risultati ottenuti nella prima fase, la campagna contro le antenne si stava trasformando in un fallimento. In queste condizioni si arrivò alla vigilia del quarto plenum. Allora fu deciso di avviare la seconda fase della guerra.
Protagonisti furono i distributori di rumore.
Essi diffondevano nell’etere delle potenti contro-onde. Bastava definire i parametri dei segnali radiofonici o televisivi che dovevano essere disturbati e attivare l’apparecchio. Immediatamente l’anti-onda copriva i suoni con fischi fortissimi, mentre sullo schermo si rincorrevano all’impazzata delle righe nere, distruggendo completamente l’immagine.
I nuovi apparecchi disturbatori furono acquistati all’estero, ma in seguito ne costruirono anche in Albania. Nel vocabolario politico del regime furono chiamati “rinnovatori”. I distributori di rumore erano efficaci perché selezionavano e colpivano l’onda trasmessa. Per loro non aveva alcuna importanza il tipo o la posizione dell’antenna, se si trovava accanto alla finestra o nel caminetto, sul davanzale del balcone o in terrazza, in cima ad un albero o nascosta nella toilette. Coloro che avevano inventato i cilindri girevoli e gli schemi universali non sarebbero sfuggiti alla vendetta.
E fu subito panico. Il nuovo nemico della televisione straniera, una specie di bombardiere invisibile, aveva ucciso l’entusiasmo per essersi salvati dal quarto plenum. Questa volta la trappola sembrava perfetta. I distributori di rumore davano ovunque la caccia al segnale della Rai e della Radiotelevisione di Belgrado. I mostri erano stati montati velocemente nelle grandi città del paese. L’Albania era in preda al delirio e alla disperazione.
Nella frenesia generale, ormai completamente privi di qualsiasi speranza di salvezza, gli albanesi si resero conto poco a poco che forse era possibile rendere impotente il nuovo nemico. Così si diedero coraggio e iniziarono l’azione di contrasto. Si comprese subito che le apparecchiature di disturbo non potevano essere installate in tutte le città. Dove c’erano degli aeroporti o delle stazioni militari non si potevano accendere nemmeno per un’ora. Le loro onde creavano grandi disturbi nelle manovre di decollo, direzione e atterraggio degli aerei. Causarono gravi danni ai radar il cui sistema, una struttura di quasi cinquanta stazioni, era stato montato armonicamente in tutto il paese e ne assicurava la protezione aerea. Immediatamente, i distributori di rumore divennero, per la sicurezza dell’indipendenza albanese, nemici ben più pericolosi della Rai e della televisione jugoslava, di gran lunga più distruttivi degli spettacoli stranieri contro i quali erano stati così urgentemente attivati.
In molti casi risultò che la nuova arma del regime poteva coprire solo una minima parte del territorio del paese. All’inizio era stato deciso che i distributori di rumore fossero installati nelle grandi città, in modo da non coinvolgere i piccoli paesi. Non si parlava proprio di coprire con tali apparecchi i villaggi, dove risiedeva il settanta per cento della popolazione. Questa differenza era dovuta essenzialmente al fatto che i amici dei segnali televisivi stranieri si trovavano nelle città, dove la corrente liberale degli estimatori della Rai era più forte e dove le conseguenze erano state più serie. Nei villaggi, dove il segnale della televisione italiana e di quella di Belgrado si potevano ricevere più facilmente a causa delle caratteristiche geografiche, regnavano ancora il fanatismo politico e la tranquillità.
Arrivò il momento in cui il panico ritornò dove era partito per paralizzare gli altri: nel cuore dello stato e del partito. I distributori di rumore avevano un effetto rilevante nelle città accanto alle quali non vi erano aeroporti, reggimenti di artiglieria contraerea, comandi missilistici, stazioni radar o di collegamento radio. Coloro che operavano in uno spazio limitato o in città di circa cinquantamila abitanti avevano bisogno di almeno quattro impianti di disturbo. Ma anche in questo caso si salvavano dalle interferenze tutta la periferia della città, i quartieri dietro le colline o più in basso, per esempio, sulle rive di qualche fiume o nelle vallate. La forza dei distributori di rumore, anche dove si sentiva, si riduceva gradualmente, si indeboliva fino a non colpire più il perimetro delle onde, per la cui distruzione era stato comandato. In simili circostanze, dopo un mese doveva essere nuovamente collaudato o sostituito.
Ma i problemi non finirono qui. Gli apparecchi, secondo un preciso ordine, venivano posizionati nei punti più alti delle città, generalmente su edifici di proprietà delle amministrazioni pubbliche locali, commissariati di polizia o alberghi statali. Solo lì essi erano protetti dagli attacchi di nuovi gruppi di “folli” nati dopo il plenum, che organizzavano azioni clandestine per distruggerli. Questi rivoltosi, in occasione della trasmissione sui canali della Rai dei campionati di calcio, di concerti particolarmente attesi o di film famosi, tentavano l’ultima azione disperata: per neutralizzare il distributore di rumori interrompevano l’energia elettrica nell’edificio in cui era stato montato.
Il rischio era grande, così come le conseguenze, mentre il vantaggio era limitato. Durava soltanto le due ore della partita o del film. Di solito, il ripristino dell’energia elettrica avveniva molto in fretta. Un’altra forma di resistenza intoleranza contro i nemici delle onde straniere fu offerta dalla natura, scendeva rumorosamente dal cielo: erano i fulmini. Quando il tempo volgeva al brutto, come comandati da un ordine superiore, essi colpivano per primi i distributori di rumore. Probabilmente questo accadeva per la posizione alta in cui si trovavano o forse perché le onde che producevano, creando un campo magnetico, attiravano i fulmini. Per ritornare ad una situazione normale erano necessari almeno due giorni.
Nelle quarantotto ore di libertà conquistata si festeggiava. Le antenne, liberate dalla paralisi, giravano sui balconi, sulle finestre, sui terrazzi, sugli alberi e sui caminetti come eliche di aerei.
La gente trascorreva questi brevi intervalli di felicità con gli occhi puntati sullo schermo.
Nel frattempo, sempre alla ricerca di nuove forme di repressione, i vertici dello stato, rimasti privi di vie d’uscita, elaboravano i criteri per poter ridurre il numero delle autorizzazioni d’acquisto degli apparecchi prodotti dalla Uem. Si cercò di insistere sul criterio della fedeltà al partito, argomentandolo con il ragionamento secondo cui gli effetti negativi della televisione straniera vista da una famiglia fedele al partito si sarebbero ridotti al minimo.
Allo stesso tempo aumentarono in maniera massiccia i ripetitori della televisione albanese.
Furono installati ovunque, al nord e al sud, sulle montagne piene di neve e sulle colline verdi, nelle piccole città accanto ai confini del paese, sulle rive dei laghi e del mare, in villaggi sperduti di poche case e nei quartieri. Il segnale della Tvsh abbracciò tutto il territorio dello stato.
Su decisione della classe dirigente furono moltiplicati anche i finanziamenti per la produzione di film degli studi cinematografici, con l’obiettivo di realizzare mensilmente film su temi di interesse nazionale. La regia fu sponsorizzata dalla televisione albanese.
Alla fine del 1973 fu chiaro che la battaglia contro le televisioni straniere e specialmente quella italiana non poteva essere facilmente affrontata e vinta. Si tentò allora un’altra manovra. Avrebbero consentito almeno la trasmissione delle partite internazionali di calcio. La televisione albanese avrebbe rinunciato a qualsiasi altro programma in quella fascia oraria per mandarle in onda. Ma tutto ciò ad una precisa condizione: dovevano essere trasmesse senza l’audio. Sarebbe stata sufficiente l’immagine accompagnata dalla voce di un commentatore albanese. Tentarono di nascondere sotto una striscia nera la sigla della Rai, che però si muoveva per i quattro angoli dello schermo quasi cercasse di sfuggire alla censura .
Le prime trasmissioni delle partite senza voce provocarono tra i tifosi albanesi una sorpresa generale. Una partita di calcio senza i fischi dell’arbitro e specialmente senza le grida dello stadio era semplicemente grottesca. La gente cercava di capirci qualcosa, si guardava interrogativamente negli occhi, per poi ritornare allo schermo nel tentativo di seguire e godersi, per quanto possibile, l’attesissima partita di calcio. Ma era tutto inutile. Annoiati, i tifosi si avvicinavano di nuovo alle antenne, alla ricerca continua dei segnali provenienti da Belgrado o dall’Italia.
Fu così che dallo stato-comando della “guerra contro i fenomeni stranieri” si prese un’altra precauzione concedendo qualcosa di vietato. Le partite iniziarono ad essere trasmesse con l’audio. Ma questa volta la confusione tra gli albanesi crebbe ancora di più, perché compresero immediatamente che le voci non erano quelle originali ma erano state montate, sovrapposte. Era un audio falso, stereotipato. L’operazione era manovrata in studio da un tecnico, che aumentava le grida d’entusiasmo ogni qualvolta ci si avvicinava ad un gol. Un lavoro molto complicato e dai risultati spesso comici, perché non raramente le voci gridavano al gol quando il pallone non sfiorava nemmeno la porta.
L’unica via di salvezza dall’ulteriore follia del potere venne trovata nella ricerca di altre onde televisive.
Nel corso del 1974, mentre la furia delle costrizioni e delle punizioni continuava la sua interminabile crociata, fu deciso di trasmettere il telegiornale delle 20 della Rai, allo scopo di informare i telespettatori di quanto accadeva nel mondo. Per questa ragione furono montate delle apparecchiature rinforzanti nella torre di Dajt, come veniva chiamato il ripetitore principale della Tvsh. Il notiziario della televisione albanese fu mandato in onda mezz’ora più tardi, alle 20.30.
Però anche questa nuova concessione aveva regole ferree. I tecnici che operavano sulla torre seguivano con attenzione il telegiornale della Rai, ma quando venivano trasmesse manifestazioni alle quali partecipavano re o presidenti, dovevano immediatamente tagliare le immagini lasciando solo la voce, fino alla chiusura della cronaca e all’inizio di un’altra. Questi tagli erano obbligatori quando sullo schermo della televisione italiana apparivano il presidente americano e il Papa.
Gli studi centrali di Tirana erano collegati telefonicamente con la torre sul Monte Dajt per evitare incidenti e per intervenire tempestivamente nel caso gli operatori si fossero distratti o si fossero dimostrati esitanti nella censura.
A cavallo tra gli anni 1975 e 1976 accadde un incidente. A Natale. Il notiziario della Rai si aprì con il saluto del Papa. L’immagine non fu tagliata. Gli abitanti della capitale della religione negata, il cristianesimo, dopo aver sempre ascoltato soltanto la voce dell’uomo della Santa Sede, lo videro per la prima volta.
Enver Hoxha in persona, utilizzando la linea telefonica speciale, urlò immediatamente la sua protesta al direttore generale della televisione albanese.
Il quarto plenum aveva lasciato il posto al quinto, sesto, settimo, ottavo plenum. Si susseguirono l’un l’altro come i battaglioni di un esercito, pronti ad essere mandati alla guerra. Dopo meno di un anno, quasi un terzo delle personalità eminenti della cultura albanese era stato incarcerato, internato, duramente criticato, pubblicamente rimproverato, corretto, licenziato, deportato in villaggi sperduti o, “per conoscere la vita”, condannato a lavori pesanti nei cantieri edili, nelle fabbriche, nelle miniere o in cooperative agricole.
Il cantante delle giornate del gruppo d’azione, l’innamorato della notte in un campo di grano, fu allontanato dalla capitale e deportato in un piccolissimo paese di provincia. L’uomo che gridava nel buio il nome di Deborah fu arrestato e condannato ad otto anni di carcere, la pena massima, con l’accusa di “agitazione e propaganda contro il potere popolare”.
Mandarono in un villaggio molto lontano anche Ymer, il cantante di canzonette italiane. Un mese prima avevano ammanettato suo fratello, un ragazzo ormai alto e forte, cuoco per sei mesi al cantiere di costruzione di una delle centrali idroelettriche sul fiume Drina. In quel luogo anch’egli aveva vissuto giornate di routine, prive di novità, una vita monotona, senza alcuna disobbedienza alle regole, perfino senza cantare di nascosto qualche canzone italiana, passione ereditata dal fratello, che aveva superato per la bellezza della sua voce. Solo tre giorni erano stati eccezionali per lui.
Il primo fu poco tempo dopo il quarto plenum e la campagna contro la televisione straniera sollevata dall’armata dei militanti del partito. Uno suo vicino di casa aveva ricevuto dall’Italia un pacco di articoli di vestiario, e fra questi anche un paio di pantaloni. Il ragazzo pregò insistentemente l’uomo, fino a sfinirlo, affinché glieli vendesse, offrendogli una somma pari alla sua paga mensile, tanto che alla fine lo convinse.
La sera stessa aveva indossato i pantaloni, passeggiando con orgoglio nel grande viale della città.
Il secondo giorno fuori dell’ordinario rimase legato ad una serata nel cantiere della centrale idroelettrica, dove lavorava temporaneamente come cuoco. Al quarto plenum ne erano seguiti almeno altri quattro e, un venerdì sera, prima del ritorno di tutti i lavoratori nelle rispettive città per il weekend, il ragazzo cenò con i suoi amici. Bevvero molto.Verso la fine della conversazione egli sussurrò “ah, quanto vorrei vedere i Beatles!”
Il terzo giorno fu in realtà una serata molto vivace nella piccola città, dove si stava esibendo la troupe del teatro comico di Tirana e quella locale. Era riuscito con difficoltà ad assicurarsi un biglietto, aveva assistito allo spettacolo, lo aveva applaudito ed era uscito pieno di entusiasmo. Una macchina della sicurezza dello stato, una jeep cinese, che nel suo paese era usata anche per trainare i mortai, frenò rumorosamente davanti a lui, a cinquanta metri dalla sala in cui aveva avuto luogo lo spettacolo. E fu arrestato.
La condanna: sei anni di carcere.
Ecco perché Ymer, nel frattempo nominato insegnante in una città accanto alla sua, fu trasferito dall’angolo nord occidentale del paese al confine
orientale, in una lontana cooperativa di montagna. La sua famiglia fu mandata dal confine con la Macedonia a quello con il Kosovo. Cosi, insieme alla moglie, anch’essa insegnante, legarono i loro vestiti con del filo spinato, uscirono nella piazza della città e salirono su un camion. Dopo nove ore di viaggio sulle montagne, arrivarono in una piccola città e presero alloggio in un albergo, in attesa dell’asino della cooperativa, che scendeva in città per ritirare la posta e caricare la merce solo una volta ogni tre giorni.
Pochi giorni dopo l’asino trasportò nel villaggio lontano il bagaglio con tre coperte, quattro lenzuola e i vestiti. Ymer fece ritorno nella piccola città orientale per un seminario di un giorno riservato a tutti gli insegnanti. L’indomani, aspettando l’asino della cooperativa per poi ritornare a piedi verso il villaggio in una passeggiata liberatoria, Ymer insieme ad alcuni suoi colleghi incontrarono il capo del consiglio della cooperativa. Smisero immediatamente di ridere, ma l’uomo del governo non risparmiò la sua tirata d’orecchie: “Guardate, qui non siamo in Italia”.
Il quarto plenum era stato seguito da un altro avvenimento: la bella figlia del dissidente nella città era di Agron era stata abbandonata dal futuro marito. Per ragioni politiche, si disse. Nel giro di pochi mesi la giovane donna impazzì.
A Villa Calandra, a Roma, la celebrazione di un plenum albanese rappresentava soltanto una notizia. Più tardi arrivò l’opuscolo contenente il discorso di Enver Hoxha, che i dipendenti studiarono nei corsi di educazione culturale. Tutto sembrava appartenere alla quotidianità.
Come se fosse avvenuto in un altro pianeta, si venne a conoscenza della condanna e dell’espulsione dal partito del “gruppo nemico nei media e nella cultura”.
Per una settimana, le parole del capo dello Stato causarono negli ambienti di lavoro angoscia e tensione. Si parlava poco. Al bar Mcm i dipendenti dell’ambasciata bevevano il caffè quasi in silenzio, come se qualcuno fosse morto e si trovassero alla vigilia di un funerale.
Tutti attendevano qualche raccomandazione od ordine su come comportarsi nei riguardi della Rai, ma da Tirana non fu imposta alcuna limitazione. Potevano guardare la televisione per tutto il tempo desiderato, potevano conversare sui programmi visti o su quelli che avrebbero scelto nella serata o l’indomani.
Sembrava incredibile ed irreale. Nel loro paese la Rai era vietata, così come erano proibiti il multipartitismo, il commercio privato, la fede religiosa, le opinioni diverse da quelle del partito. Agire al contrario significava essere ad un passo dall’inferno del carcere.
Nello stesso tempo il personale albanese a Roma, dall’ambasciatore all’autista e alla guardia, dalle mogli ai bambini, dai parenti agli amici che arrivavano dall’Albania, tutti potevano seguire liberamente l’emittente italiana senza temere alcuna conseguenza. Come se non bastasse questa strana e inquietante situazione, un alto funzionario del partito, durante un viaggio in Francia per ragioni di salute fece sosta per una sera a Roma e chiese di incontrare il personale con le loro mogli che, non lavorando in ambasciata, di solito restavano a casa. L’alto dirigente di Tirana, terzo personaggio in ordine di importanza nel paese, che nel governo era il responsabile per la sicurezza dello stato, dopo aver illustrato la situazione politica in Albania e confermato la forza e l\\\\\\\'invincibilità della nazione, esortò i dipendenti dell’ambasciata ad accompagnare le consorti a visitare Roma, ad ammirare tutti i musei d’Italia, a guardare film seri e ad organizzare viaggi nelle più belle città del paese. Egli disse con convinzione “non chiudete le vostre mogli in casa, non le abbiamo portate qui come carcerate”. La sorpresa più grande fu la sua affermazione: “dovreste cogliere l’occasione per conoscere la vita e la cultura italiana”.
Dopo la visita dell’alto funzionario, l’ambasciatore e il segretario della cellula del partito seguirono le sue indicazioni. Questo pose fine all’inquietudine del personale e fece in modo che essi entrassero in un altro mondo, diverso da quello in cui la repressione alzava onde sempre più alte uccidendo destini umani.
Dalle nuvole sulle quali li aveva lanciati il personaggio politico in viaggio per la Francia, li fece precipitare un’altra circostanza. Con gli interlocutori ufficiali italiani i rapporti non erano più come prima. C’era molta incredulità e tensione. Tutti i movimenti all’esterno dell’ambasciata erano controllati, specialmente quando si usavano le macchine di servizio. Le veloci autovetture da inseguimento italiane si mantenevano a distanza di alcuni metri, senza mai allontanarsi, senza mai mollare l’obiettivo, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata. Gli innumerevoli autisti che si davano il cambio, e i loro accompagnatori, spesso sorridevano mentre li inseguivano. Ma non parlavano, e soprattutto non distoglievano mai gli occhi dalla strada.
Alberto si abituò presto a questa nuova situazione. Nel quarto plenum Enver Hoxha aveva riservato all’Italia espressioni molto dure, definendola “un missile americano nel Mediterraneo”, un paese che lavorava per destabilizzare la tranquillità socialista in Albania. Non ci si poteva attendere una reazione diversa.
Appena gli fu possibile, senza perdere tempo, l’autista si fece un regalo: acquistò una grande radio “Grundig”. Con essa poteva ascoltare i notiziari di Tirana, senza avere bisogno di andare in ambasciata ad aggiungersi alla vasta schiera di ascoltatori della piccola radio dell’addetto all’ufficio cifra.
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