Ylli Polovina in italiano
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”REPUBLIKA E SHTATË”
“AMBASADOR NË BALLKAN”
“LOTËT E SORKADHES”, botimi i dytë
LOTËT E SORKADHES
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S'AFËRMI
MIRËSEVINI

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“Intrigo sull’Adriatico”

Romanzo

Traduzione di Besiana Polovina
Si trova nelle librarie italiane

(Un frammento)

Shahu appoggiò la pianta del piede sul primo scalino dell’aereo di linea “Alitalia” come se si fosse improvvisamente trovato in uno spazio rapidamente privato dell’aria. Quei pochi centimetri di distanza che lo guidavano all’interno dell’aereo, tra il cemento della pista e il duralluminio, sembrarono averlo allontanato dal mondo per sempre. Ebbe perfino l’impressione che i polmoni si svuotassero degli ultimi residui d’aria e il corpo gli apparve abbandonato dalle materie della carne e delle ossa.
Come uno strepito giunto dall’alto, chissà da dove, quasi fosse un branco di animali selvaggi impegnati a graffiarsi e nella lotta sbraitare senza fine, sentì il rombo sommesso dei motori. Il secondo passo lo fece involontariamente, contro voglia. Sembrò più un gesto strappato con violenza dalla grande forza della pressione. L’imponente oggetto plumbeo, dello stesso colore del cielo di quel pomeriggio del 18 dicembre 2003, non era più un aereo, ma un gigantesco rapace sceso solo per rapirlo. Quando finalmente salì in cima alle scale intravedendo come nella nebbia il viso sorridente della hostess, si convinse di non avere più la forza di tornare indietro. La terra gli apparve molto lontana.
La poltrona dove si era seduto non sarebbe mai riuscito a trovarla se non avesse seguito i movimenti dei suoi compagni di viaggio. Nel loro progetto, una camera di commercio al centro di Tirana che avrebbe collaborato e aderito a un gemellaggio con una simile a Bologna, erano in tutto cinque persone.
Si lasciò sfuggire un rantolo. Stranamente l’aria, che fino a quel momento gli era mancata, fece questa volta il percorso contrario a quello che causa in genere un sospiro: non svuotò, ma riempì i polmoni. Poi gli sembrò che riempisse tutto l’ambiente circostante.
Recuperò il senso della realtà. L’impressione di tornare fu improvvisa quanto quella di allontanarsi dal mondo.
L’orecchio colse la leggera musica trasmessa a bordo. Dopo pochi attimi la melodia fece sbiadire la persistenza di voler decifrare il presentimento di quello che era successo. Prese a scherzare allegramente con i compagni e, quando chiesero di allacciare le cinture, fu pienamente conquistato dalla gioia.
Sotto l’effetto di questa serenità gustò il decollo dell’aereo, il raggiungimento della quota, il corso del volo verso la penisola appenninica. Quando la superficie blu scuro del mare Adriatico diventò visibile, aveva dimenticato quello che gli era accaduto nel poggiare il piede sul primo scalino dell’aereo.
Per via delle nubi addensatesi di gran fretta, lo strato fluido del mare scomparve, procurandogli pian piano una caustica sensazione di tristezza. Aveva perso il contatto con la terra e fu invaso di nuovo dalla stessa vaga sensazione di perdita di quando si era staccato dal cemento della pista dell’aeroporto Rinas di Tirana.
Nell’atterrare a Bologna, vide il cielo del pomeriggio assomigliare a quello della capitale del suo paese: plumbeo. Era incolore, monocorde, come in un pianeta o cosmo diverso. Salirono velocemente sull’autobus del servizio aeroportuale che, senza tergiversare, si incamminò verso l’edificio della dogana.
Questo era il suo terzo viaggio in Italia. Era venuto per la prima volta come specialista della fabbrica meccanica più grande di Tirana, chiamata allora “Il Partigiano”. La seconda volta presenziava come vice ministro dell’Interno. Entrambe le occasioni risalivano all’epoca del regime comunista, decadi prima.
Attraverso le grandi finestre dell’autobus tentò di fissare le immagini. Era una sua vecchia abitudine quella di iniziare, quando amava un paese straniero, a esprimere l’adorazione fin dai primi oggetti incontrati. L’incontro struggente con l’Italia iniziava con l’aeroporto di Bologna.
Poco dopo l’autobus si fermò e aprì simultaneamente le porte, incamerando per poi liberare sulle persone il soffio di quella fredda aria di metà dicembre. Come liberata dall’angoscia, la folla dei viaggiatori sbalzò sulle scale entrando in gran fretta dentro la grande porta dell’edificio doganale.
Le persone sembravano animate da una fretta inusuale. In un primo momento pensò che tutti quei piedi, che quasi correvano, tentavano di sfuggire alla fine della coda per il controllo all’entrata. Divenne poi chiaro che tutta quella sollecitudine nasceva per via del tardo pomeriggio e del rapido avvicinarsi della notte. Incominciò a intrattenere una conversazione di routine con un compagno di gruppo. Permisero che gli altri tre colleghi passassero davanti.
Al momento di presentare i passaporti, mentre l’amico con cui conversava superava la verifica del visto d’entrata, l’italiano dall’elegante uniforme della polizia di frontiera chiese di poter visionare il suo. Consegnò tutto tranquillamente.
Dietro il vetro della cabina, un computer con vicino un piccolo thermos pieno forse di tè aromatico o succo di frutta gli trasmise una buona impressione di ospitalità.
Un attimo dopo sulla stretta superficie del tavolo intravide il profilo inclinato di un timbro, poggiato senza cura. Quello stesso timbro sarebbe stato afferrato dal poliziotto di frontiera e avrebbe segnalato, attraverso il duro colpo della sua parte finale sul foglio adatto del passaporto, il caratteristico rumore dell’approvazione d’entrata su suolo italiano.
Eppure l’uomo continuava a premere senza sosta alcuni tasti del computer seguendo con attenzione le tracce comparse sullo schermo. Improvvisamente si risvegliò in lui quella sensazione di perdita che lo trascinava con sé allontanandolo all’istante dalla terra.
Il poliziotto di frontiera continuava a premere sulla tastiera e a interrogare lo schermo. Poco dopo allontanò lo sguardo e con ancora fissata nella pupilla la luce azzurra dello schermo, gli disse brevemente, ma in modo educato: “Signore, deve attendere un po’!” Intorno a lui tutto si fece buio. Dopo quasi una decade e mezzo lontano dal ruolo di uno dei principali dirigenti dei servizi segreti albanesi, l’istinto della vecchia professione prese di nuovo vita. Corse in suo aiuto. Come ai vecchi tempi, quando l’azione adeguata e l’errore convivevano pericolosamente, la prima cosa ad arrivare dal focolaio risvegliato della precedente professione fu una pesante offesa rivolta a se stesso: “Idiota, ti hanno teso una trappola!”
I riflessi dell’uomo del Servizio Informativo Estero gli portarono in mente la regola della prima fulminea reazione di autodifesa e del tentativo di sfuggire il prima possibile alla caduta fatale in trappola: chi dei suoi lo aveva tradito?!
Posò subito lo sguardo sui quattro uomini. Uno di loro doveva essere il Giuda. Quelli, ormai nell’area della sala aeroportuale, lì a rappresentare il libero territorio italiano, sembravano pietrificati. Seguivano il tutto con occhi spalancati, pieni di ansia e di preoccupazione.
I suoi occhi si fermarono su un membro del loro gruppo, il cui cognome, nell’averlo conosciuto e pronunciato per la prima volta quindici anni prima, gli aveva lasciato in memoria come un rumore di foglie secche o legno calpestato da piedi scaltri.
L’altro era ormai pallido.
L’attesa durò più di mezz’ora. Le diede fine un ufficiale che si avvicinò con passo leggero e con una voce mite da brav’uomo gli chiese di seguirlo.
Fu invitato ad accomodarsi in un ufficio interamente circondato da vetrate. All’interno si trovavano tre ufficiali, uno seduto dietro una scrivania di fronte al computer e altri due che entravano e uscivano senza proferire parola. Si insinuò in lui il presentimento che la questione non tendeva a chiarirsi, semmai il contrario. Lo sguardo superò il vetro, seguendo il suo gruppo. Gli uomini non si erano mossi di un passo dal loro posto. Sembravano ancora più preoccupati di prima.
L’ufficiale seduto al tavolo, con ogni probabilità il capo, gli fece segno di sedersi. Quella situazione muta lasciava pensare che in quella stanza di vetro fosse giunto il silenzio abituale nella casa di un morto.
Fece segno agli amici di andare. Sarebbe stato inverosimile ormai superare il confine. Non avrebbero acconsentito alla sua entrata in Italia. Di certo l’avrebbero rispedito a Tirana con il primo aereo. Come se qualcuno l’avesse colpito con un forte pugno, il cuore gli si strinse dal dolore. L’Italia, che così tanto amava, lo stava cacciando. E tutto questo sicuramente accadeva per via di un articolo.
La pubblicazione risaliva a luglio del 2002, veniva riportata da una famosa rivista italiana ed era stata tradotta e stampata ad agosto a Tirana da una rivista del settore. Il titolo era “Il padrino dell’Albania”, con riferimento al premier del paese come a un uomo legato ad alcuni clan mafiosi. Che in quell’articolo fosse stato citato il suo nome gli era stato riferito da altri, ma anche se si fosse rinchiuso dentro le quattro mura domestiche, la grave notizia avrebbe comunque trovato il modo di trapelare. Era talmente clamorosa da viaggiare con l’aria e d’infiltrarsi ovunque.
Quando la famosa rivista gli fu consegnata, mentre leggeva ebbe l’impressione che dal gruppo di lettere si allungassero verso di lui per soffocarlo due mani spaventose. Il frammento dell’articolo italiano dove veniva citato non era per nulla breve. Occupava all’incirca un quarto del testo. Non era stato posizionato in modo trascurabile o interpretato come una testimonianza meno rilevante, ma proprio sul finale e come principale prova della denuncia pubblica.
Al suo interno si affermava che, dopo il colpo inferto alla rete del Montenegro, la mafia albanese appariva sempre più attiva nel contrabbando di sigarette. Riportava che il peso principale del business apparteneva alla camorra napoletana e che la delegazione di un suo famoso clan aveva visitato l’Albania il 29 gennaio 2001 stabilendo un incontro con lo stesso capo della polizia di Tirana. Secondo l’articolo, l’uomo chiave durante l’organizzazione del viaggio era stato lui, un uomo fidato del premier albanese. Nel tentativo di convincere il lettore che i fatti corrispondevano al vero, nell’articolo si sosteneva che a disposizione della delegazione da Napoli era stata messa anche la Mercedes dell’attuale premier, a quei tempi dirigente del Partito Socialista.
Fece di nuovo segno ai suoi di non aspettarlo più. Gli uomini diedero con maggiore forza la stessa risposta di prima, uno di loro si staccò perfino dal gruppo dirigendosi verso l’ufficio di vetro e dicendogli che sarebbe stato assurdo abbandonarlo da solo in un aeroporto straniero.
Prese la mano del suo amico e la strinse con riconoscenza. “Andate” lo pregò, “la mia questione potrebbe chiarirsi tra molte ore. Nel caso in cui mi sia concesso entrare, ho i vostri numeri di telefono. Vi chiamerò all’istante. Se dovessero rimandarmi in Albania, vi avviserò comunque”.
Sul viso dell’altro comparve un sorriso amaro. Soffriva sinceramente.
Quando l’amico uscì dalla stanza, entrarono per la terza volta i due ufficiali italiani di frontiera. Si leggeva nel loro sguardo la decisione di volergli comunicare qualcosa. Finalmente l’ufficiale seduto dietro al computer gli disse di presentarsi dal loro capo. Quest’ultimo lo attendeva nel suo ufficio, due piani più in alto.
Gli altri due ufficiali, come se fosse stato premuto un bottone, abbandonarono i loro posti quasi in contemporanea. Per evitare di trovarsi in mezzo nell’umiliante posizione del fermato, fece segno che li avrebbe tranquillamente seguiti. Gli altri lasciarono intendere di aver compreso.
Con la borsa stretta in mano, mentre saliva le scale, fu avvolto da una massa di aria calda piena di voci e sospiri. Un secondo dopo lo pervase l’idea di essersi lasciato alle spalle la vita normale. Avanzando di due piani, cadeva in verità nel precipizio, sotto terra.
Shahu tentò di frenare l’avvicinarsi della disperazione. Sentì all’improvviso l’aroma di un profumo inebriante seguito da una voce femminile. Trattenne il respiro e si fermò. Si girò di colpo verso il punto di provenienza di quella voce magica. Era una giovane coppia, entrambi biondi, forse nordici.
Anche i due poliziotti si erano fermati. Uno di loro disse “Per favore!” e indicò con la mano tesa la strada che dovevano seguire. Riprese a muoversi. Pochi metri più in là, sulla scala mobile, con lo sguardo fisso altrove come presa da un sogno d’amore, passava una ragazza. La sua pelle assomigliava alla superficie di un’arancia illuminata al tramonto dagli ultimi raggi di sole.
Guardò l’orologio. Erano le 17,30. Erano atterrati alle 15,00. Aveva impiegato un’ora e mezza ad arrivare dall’Albania e dopo altre due ore e mezza non riusciva a entrare in Italia.
Non entrava e non usciva. Si trovava sospeso sulla linea di confine.
Il passaggio davanti a loro si stringeva. Stavano entrando in un corridoio. Come se dovesse definitivamente separarsi da uno spazio ampio in cui ci si poteva muovere liberamente, guardò alle sue spalle, dove si intravedeva ancora la grande sala aeroportuale. Aveva bisogno di vedere più persone possibile. L’occhio cadde su alcune decorazioni particolari, come di una festa.
Erano fili illuminati da piccole lampadine e altrove vide scritto a grandi lettere “Merry Christmas”. Sui vetri di un ufficio informazioni splendevano le parole “Buone feste”. Tentò di cogliere qualche dettaglio di quella particolare atmosfera, ma ormai il corridoio si chiudeva davanti a lui e con un rumore da binario venne spalancata una porta di vetro.
Nell’ufficio di colui che era, con ogni probabilità, il capo della polizia di frontiera dell’aeroporto di Bologna, la calma era quella di un pozzo. L’uomo in uniforme aveva gli occhi di un particolare colore viola, come dei delicati petali caduti sotto la luce della luna.
L’alto ufficiale non fece alcun tentativo di reprimere nell’espressione il dispiacere. Forse si aspettava una presenza diversa, l’immagine di qualche tipo comune di quelli che sanno solo violare le regole. Ma l’uomo appena entrato era un signore che da poco aveva superato i sessanta. Dai documenti ricevuti tramite internet e che aveva studiato fino a quel momento, l’albanese fermato all’aeroporto aveva un nome mussulmano, Shahu, simile a quello dello Scià Pahlevi di Iran. Era nato nel 1942. Aveva i tratti di una creatura mite ed educata, dallo sguardo pacifico e un’espressione di nobiltà dipinta sul viso.
Il capo della polizia di frontiera dell’aeroporto di Bologna si preparò a parlare, senza però riuscire a formulare il discorso. Sembrava non respirare più. Quando finalmente pronunciò le prime sillabe, queste saltarono come appena liberate da uno spesso strato di ruggine. Non erano molte, ma caddero pesanti una dopo l’altra come il piombo: “Le comunichiamo l’ordine della Procura italiana di Napoli, che vi dichiara persona sotto arresto!”
Shahu vide infuocarsi davanti a lui un fulmine che gli tolse la luce degli occhi. In quella cecità, il profilo dell’alto ufficiale di confine si trasformò all’istante fondendosi, come se fosse stato gettato in un forno. Le orecchie iniziarono a rimbombare. Quando poco dopo vide la luce tornare e il busto dell’italiano in uniforme pian piano acquistare le normali proporzioni, chiese il motivo per cui stessero agendo in questo modo.
La voce scaturì calma e ferma. Attraverso il suo italiano elementare, le cui frasi non conoscevano verbi e ancor meno congiuntivi, disse al capo della polizia di frontiera dell’aeroporto che non potevano arrestarlo. Era cittadino di un altro stato e non aveva alcun legame con l’Italia, oltre a quella visita di lavoro durante la realizzazione di un legittimo progetto di gemellaggio con una camera di commercio. La sua era una permanenza di due giorni per motivi di lavoro. In seguito sarebbe tornato nel suo paese. Nel caso in cui avessero avuto qualche accusa avrebbero potuto non acconsentire alla sua entrata in territorio italiano, rispedendolo indietro per poi rivolgersi subito agli organi di giustizia albanesi perché agissero contro di lui, se necessario anche collaborando, nel quadro degli accordi tra le due parti. “Date il materiale accusatorio ai tribunali del mio paese!” pronunciò con fermezza. “Là dove vivo e lavoro mi adeguerò a ogni loro decisione”.
Durante una lunga pausa di gelo nessuno dei due proferì parola. L’alto ufficiale disse solo in breve: “Ora arriverà l’accusa”, senza che l’albanese rispondesse. I tratti del viso mostravano i segni di un grave e silente tramonto. La pelle aveva lasciato il posto a un freddo strato di marmo.
Quando finalmente il materiale accusatorio gli fu messo davanti, vide che si trattava di un alto dossier di 760 pagine.
Lo tenne per un attimo in mano, come se gli fosse necessario comprendere se si trattasse di un mucchio di carte o di materiale esplosivo. Sollevò la copertina. Incominciò a leggere. Attraverso una veloce lettura diagonale cercò il suo nome. Veniva citato solo in una pagina.
Riprese a sfogliarlo nuovamente, rinunciando subito. Ormai apparivano chiari tutti i dati. In un’altra occasione, se gli avessero chiesto in quale modo, senza conoscere bene la lingua e senza aver mai letto un libro in italiano, era riuscito a sintetizzare in solo mezz’ora il nocciolo di quel dossier, si sarebbe sorpreso e non l’avrebbe ritenuto possibile.
Lo avevano inserito in un gruppo di mafiosi costituito da trentadue persone, di cui ventotto erano italiani, uno greco e altri tre albanesi. Il suo nome nella lista si trovava al ventesimo posto. Il mandato d’arresto era diventato esecutivo il 31 maggio 2002. La viceprocuratrice per le indagini preliminari di Napoli, il cognome della quale in albanese significava cielo nuvoloso, chiedeva la misura cautelare dell’arresto poiché constatava che Shahu, “assieme ad altre persone, alcune delle quali in via d’identificazione, con l’intenzione di compiere una quantità indefinita di crimini, si erano occupati del contrabbando di tabacco lavorato all’estero”. Secondo l’accusa, avevano precisamente organizzato l’acquisto del tabacco nei territori di alcuni paesi europei come Svizzera, Montenegro, Cipro e Grecia, per trasportare la merce in un secondo momento nei depositi concessi dal Montenegro, dall’Albania e dalla Grecia. Da qui il tabacco di contrabbando viaggiava verso la Puglia, la Campania e altre regioni italiane. Secondo la viceprocuratrice, tutti gli accusati “si occupavano del trasporto, del deposito, della conservazione e dopo della vendita nel mercato clandestino italiano e negli altri paesi della Comunità Europea di questa merce illegale, risultando così una associazione criminale munita di strutture e mezzi necessari come motoscafi, navi, macchine, autovetture e telefoni cellulari, utili a realizzare lo scopo”.
La viceprocuratrice accusava anche che, durante la realizzazione del loro programma criminale, gli uomini dell’associazione mafiosa non pagavano alla dogana la cifra prevista.
In quell’unica pagina in cui Shahu veniva citato e accusato in modo specifico, veniva riportato che era stato un vice ministro dell’Interno del governo di Enver Hoxha, stalinista molto radicale, il cui cognome significava “imam”, un chierico mussulmano sunnita. Durante il suo incarico, secondo la viceprocuratrice, si era occupato di contrabbando di tabacco. Quindi per l’accusa, occupandosi di questo traffico per conto del governo albanese degli anni precedenti al 1990, si trattava di un crimine recidivo.
Mentre Shahu sfogliava il dossier contro di lui, il comandante non lasciò mai l’ufficio. Prese in mano un gruppo di documenti, conversò con tono basso al telefono. In pieno silenzio, i suoi due ufficiali dipendenti entravano e uscivano.
A un certo punto, uno di loro poggiò un caffè davanti a Shahu, che non lo toccò. Poco dopo uno degli ufficiali mise sul tavolo un bicchiere con del succo d’arancia. Iniziò a berlo con grande lentezza, più per spegnere la febbre delle labbra che per curare il fuoco dentro al petto.
“Non ho mai avuto contatti con le persone che leggo qui” disse alla fine.
I tre ufficiali italiani alzarono gli occhi fissandolo con lo stesso sguardo. Era di dispiacere. Quel dossier non era una loro opera e non erano a conoscenza di nulla. Il loro compito era quello di eseguire l’ordine di una procura del loro paese, che chiedeva loro d’agire in questo modo appena l’uomo per cui era stato richiesto l’arresto avesse messo piede sul territorio italiano.
“Non ho alcun legame con l’accusa” dovette insistere Shahu.
Finalmente il comandante della polizia di frontiera dell’aeroporto di Bologna disse: “Si trova da ora sotto arresto, per cui la prego, prima di prelevarla, di avvisare i suoi cari”.
La sua voce era morbida ma ferma allo stesso tempo. A Shahu servì il tempo di un profondo respiro per convincersi di non avere altra via che seguire il destino di un uomo arrestato. Prese dalla tasca il cellulare e formò un numero. Dal ricevitore si udì la voce del figlio: “Ciao papà, come stai?”
Shahu sentì formarsi un nodo in gola.
“Non posso venire. Mi hanno arrestato”.
Dall’altra parte sembrò che qualcosa fosse appena caduta rompendosi in minuscoli pezzi. Per un attimo sullo sfondo riuscì forse a distinguere la voce della moglie. In verità Shahu temette che lontano, a Tirana, il suo unico figlio stesse dando pugni al muro e i suoi fossero lamenti di dolore. Si rammaricò di aver iniziato la telefonata dando subito l’amara notizia, senza averlo preparato prima. Prese a raccontare l’evento dall’inizio, con molta calma, nascondendo il dolore.
“Com’è possibile?” rispose il figlio. La sua voce gli sembrò il grido di un uccello separato dal nido.
Shahu ebbe subito l’impressione che la moglie, con le mani sul viso per poter contenere il pianto, si preparasse ad afferrare il telefono, anche se il figlio gli aveva detto che non era a casa.
“Avvisa mamma, ma con cautela!” lo pregò.
Una volta terminata la conversazione, sollevato che la notizia avesse raggiunto Tirana, liberò tutta la sua rabbia.
“Chiedo un avvocato!” quasi urlò.
Come se si fosse trovato dietro la porta, fece la sua comparsa un uomo sui quarant’anni, di bell’aspetto. Disse di essere l’avvocato della camera di commercio privata di Bologna, con la quale i colleghi di Tirana avrebbero fatto un gemellaggio.
Le parti italiane conversarono tra di loro per dieci minuti. Per Shahu fu forte l’idea che tutto, se non organizzato, fosse almeno menzognero. Quando l’avvocato affermò di non poterlo aiutare per il momento, ma che l’avrebbe fatto molto presto, iniziò a consegnare gli oggetti che non era permesso si portasse dietro e quelli che potevano essere rispediti a Tirana. Incominciò con il cellulare, certo che l’avrebbero sequestrato come prova. Una parte delle intercettazioni erano state eseguite senza dubbio attraverso le sue telefonate. Ma il cellulare non fu trattenuto dagli ufficiali. Fu messo all’interno di un pacco che sarebbe stato spedito a casa alla prima occasione.
Una volta terminata la suddivisione degli oggetti, l’orologio segnava qualche minuto alle otto. Fuori doveva essere già calata la notte.
Attraverso il buio sarebbe stato portato verso un’altra oscurità, la prigione.
Come se fosse precipitato rapido dalle nuvole, con un profondo grido di dolore, vide l’immagine della figlia.
Era alta e bella. In quel momento aveva aperto le braccia e tentava di sollevarlo in cielo. Come se volesse salvarlo.
Il suo era il nome di una regina illirica, storicamente conosciuta perché all’arrivo di una delegazione dell’Impero Romano, incaricata di dare l’ultimatum della resa, aveva ordinato di arrestare tutti.












Stretto tra due agenti, vide la macchina uscire di gran fretta dall’aeroporto di Bologna e dirigersi verso il centro della città. Nonostante lungo le vie le persone iniziavano a ritirarsi, l’atmosfera festiva regnava sui luoghi desolati. Ovunque risplendevano luci. Lo scintillio scaturiva non solo dalle vetrine cariche di fiocchi di neve stilizzati ma anche dalle piccole lampade accese sulle cordoniere. Lesse “Buon Natale!” ben quattro volte. Faticava a ricordarsi il motivo di quella festa in Italia e quando rinunciò alla tentazione di comprendere per abbandonarsi unicamente al trauma della sua situazione, affiorò la soluzione dell’enigma. Si trattava della nascita di Cristo.
Il paese dov’era stato arrestato si trovava alla vigilia della festa più importante per un popolo cattolico.
Dopo pochi secondi, pensò che verso l’ingiusta crocifissione si stesse avviando non l’ebreo Gesù Cristo, ma lui, l’albanese dalla fede islamica, Shahu.
Intanto il viaggio in macchina proseguiva in silenzio. Sullo sfondo delle vetrine cariche di luci i visi degli agenti restavano cupi.
Per un attimo, nel tentativo di avvicinarsi, l’agente alla sua destra lo colpì con il calcio della pistola riposta nella fondina. Quell’improvviso contatto sulla costola gli ricordò che se fosse stato abbastanza furbo da prenderla con la forza sarebbe potuto scappare. Capì subito che quella fantasia era solo un modo attraverso cui l’inconscio esprimeva l’ira verso l’arresto.
Nella notte, nonostante sull’asfalto della strada che portava alla questura cadesse una morbida pioggia di luci, l’edificio comparve con i contorni di una figura grave e misteriosa. In una delle sue stanze, compiendo i gesti di routine senz’anima, presero una per una le impronte delle dita della sua mano sinistra, poi di tutto il palmo. Come se i comandi fossero stati eseguiti da macchine, furono prelevate anche le impronte della mano destra, seguite da quella del palmo.
Lo imbrattarono di nero. Se ne vergognò profondamente.
Il gruppo che eseguiva noncurante l’intero rituale della registrazione del neo arrestato posizionò con la stessa freddezza e precisione, perché fosse tenuta davanti al petto, una placca numerata. Fu fotografato. Nonostante alcune luci forti illuminassero il suo viso, la macchina utilizzò comunque il flash. Per via del bagliore accecante che lo aggredì, un forte bruciore gli pervase tutto il corpo, fin nelle punte delle dita. Sentì d’arrossire. La macchina provvide allo scatto come se fosse stato il rumore di un’arma quando lo fotografarono di fronte, poi con il profilo sinistro e infine con quello destro.
Dopo aver compiuto tutte le formalità della registrazione, lo fecero accomodare con la stessa noncuranza in un altro veicolo. Non avevano allontanato nessuno della sua precedente scorta.
Quando giunsero nel carcere di Bologna, l’orologio sul polso di uno degli agenti segnava le dieci di notte.
Davanti alla grande porta di legno intrecciato col ferro, la macchina si fermò per un attimo. Restava immobile come se avesse intenzione di spaventare e di sottomettere l’uomo che la gattabuia avrebbe ingoiato di lì a poco. Dopo questa pausa iniziò ad aprirsi con grande lentezza.
Shahu credette di vedersi spalancare di fronte una grande bocca sdentata.
Quando l’entrata fu resa accessibile, il motore della macchina, prima di proseguire e fare il suo ingresso nello spazioso cortile, tremò. Quindi sbalzò in avanti per poi definitivamente frenare nel silenzio più totale.
Fu portato fuori dalla macchina con la stessa indifferenza di prima. Ormai non era più un uomo, ma un oggetto. Era un numero.
Poco dopo entrarono nel corridoio e lì lo lasciarono in una sala d’attesa. Mentre si allontanavano, le scarpe degli agenti iniziarono a scricchiolare. Forse era accaduto lo stesso anche prima, ma questa volta il profondo silenzio e il senso di abbandono che provava gli avevano trasmesso il rumore dei passi.
Tutte le porte alle sue spalle erano state chiuse con chiavistelli pesanti e non era in alcun modo possibile per lui far ritorno alla vita normale.
Le guardie che lo accolsero erano due e all’inizio lo squadrarono dalla testa ai piedi. Dopo dissero qualcosa a voce bassa, poi lo misero in mezzo a loro per accompagnarlo dentro al carcere. Intorno si sentivano colpi di tosse, vaneggiamenti, rumori di oggetti di metallo.
Si trovava in un mondo estraneo. O meglio, in un sottomondo.
Era difficile comprendere dove lo stessero portando, in quale ala o piano del carcere. S’impegnò a fissare a mente qualcosa e infine, scontrandosi con la porta di una cella, ebbe l’impressione che con tutte le salite e le discese affrontate, forse a causa di un trucco dei guardiani perché un nuovo carcerato potesse perdere il senso dell’orientamento, si trovasse al secondo piano.
Uno degli agenti aprì la porta facendo tintinnare le chiavi e lo fece entrare. Non ebbe un attimo di esitazione. Dietro le sue spalle la porta di ferro si chiuse senza far rumore. Fu minimo anche il roteare delle chiavi nella serratura. Il silenzio divenne profondo.
Si trovava lì solo, indifeso, abbandonato a se stesso. Immediata, la parola “isolamento” gli tornò in mente. Quando lavorava per il ministero dell’Interno la si nominava di frequente. La polizia e le carceri erano gestite da un altro vice ministro, più giovane, un ufficiale di carriera. Faceva parte della cerchia dei suoi amici.
La cella che lo ospitava aveva un letto singolo e un altro a castello. Quest’ultimo era vuoto. In quello singolo dormiva una persona. La testa si trovava sotto la coperta.
Shahu fece un respiro profondo. In otto ore la sua vita era stata capovolta e doveva a ogni costo adattarsi alla nuova situazione. Respirò ancora. Questa volta gli sembrò che l’aria nei polmoni raffreddasse e schiarisse la mente.
Si avvicinò all’uomo che dormiva e lo scosse leggermente per i piedi. Quest’ultimo abbassò la coperta, socchiuse gli occhi e in un italiano sgrammaticato e con la lingua ingrossata, riuscì ad articolare qualcosa di comprensibile per Shahu. Era stato condannato per droga. Poi si ricoprì per intero con la coperta di lana.
Non l’avrebbe più disturbato. Che dormisse. L’aspetto era quello di un uomo pacifico.
Si mise lentamente al suo posto. Per alcuni minuti sarebbe stata questa la sua posizione, sdraiato ma scoperto. Doveva restare solo con se stesso. Gli eventi avevano assunto una piega tragica. Finché non avesse analizzato con calma l’intera situazione, non poteva e non doveva abbandonarsi al sonno.
Nella notte, dagli altri angoli del carcere provenivano a volte gli echi del russare o le grida di uno schizofrenico, che però non lo turbavano.
Era in trappola. Non si era ritrovato casualmente nel punto doganale italiano. Era stato inviato lì. Il suo arresto era stato organizzato. Iniziava a Tirana per proseguire a Napoli o il contrario, i fili conducevano forse a Roma. L’intera situazione era un enigma da risolvere. Lui era senz’altro una pedina importante, ex vice ministro dell’Interno del governo comunista e in seguito proprietario di “BalkTrans”, un’azienda che commerciava tabacco.
Una volta sfogliato il superdossier dell’accusa e fatto un veloce confronto con l’articolo pubblicato sulla famosa rivista italiana, fu sicuro dell’obiettivo a cui mirava un fatto del genere: si perseguiva politicamente la distruzione della carriera del premier albanese.
In questo tentativo lui costituiva la testimonianza, la prova.
L’articolo sembrava descrivere il suo paese come l’alcova della mafia nella regione. In particolare per quest’accusa, lui era di nuovo la prova.
La versione pubblicata voleva affermare che i mali dell’Italia provenissero dall’Albania, e per poterlo dimostrare lui era fondamentale.
Si trovava nell’occhio di un ciclone.
Si era mostrato disattento e privo d’intuito. L’articolo pubblicato sulla rivista italiana l’aveva preoccupato solo quando era stato ripreso dalla stampa albanese. Se un simile evento non si fosse verificato, non sarebbe mai venuto a conoscenza del fatto che il suo nome fosse stato citato in un paese straniero e, come diretta conseguenza, non avrebbe fiutato il modo in cui alcuni agenti italiani, inviati per l’occasione a Tirana, avevano raccolto intercettazioni e fotografie. Per quattro anni di seguito era sprofondato nel grande sonno, aveva personificato l’uomo dei servizi intelligenti alle prese con la fatale perdita di ogni tipo di riflesso di autodifesa o di attacco. Si era spogliato degli istinti di sopravvivenza, si era indebolito e alla fine era caduto in trappola come un sempliciotto.
Fino allo scemare della notizia, tutti in Albania avevano compreso che quello che era stato scritto dal settimanale italiano traeva ispirazione da una lunga lite a Tirana all’interno della maggioranza di sinistra al governo. Si trattava di uno scontro tra i suoi due premier rosa, l’attuale e il suo predecessore.
Proprio la congettura che, più che all’interno della redazione della famosa rivista italiana, la materia esplosiva dell’articolo fosse stata preparata a Tirana, fece affievolire allora in Shahu la volontà di insistere con ulteriori indagini. Non solo mentre l’effetto dell’articolo era in azione, ma anche quando finalmente si attenuò, lui non ebbe alcuna conseguenza. Nessun procuratore o tribunale albanese assunse l’articolo come base per formulare delle accuse. Nessun giornale spinse oltre il respiro dell’articolo o del suo obiettivo.
Tutto questo lo convinse che “Il padrino dell’Albania” facesse parte di quegli articoli della stampa estera che, contenendo poche verità e ancor meno fatti, venivano ritenuti quasi inaffidabili dall’opinione pubblica del suo paese. Tra l’altro, diversamente da altre volte in cui alti funzionari albanesi avevano scelto di aggirare le accuse senza contrattaccare giuridicamente, la persona direttamente coinvolta, lo stesso premier del paese, aveva annunciato la sfida, citando in causa per calunnie la redazione del settimanale italiano.
Ma quando nell’ufficio del capo della polizia di frontiera sfogliando il suo dossier di accusa vide un ordine di arresto datato qualche mese prima della pubblicazione dell’articolo, capì che il premier albanese aveva compiuto un gesto forte. All’accusa aveva risposto con un’accusa. Senz’altro un simile atteggiamento doveva aver indispettito la redazione della rivista italiana. Il capo del governo di Tirana si era rivelato testardo, ma chi mirava alla sua caduta a Tirana si sentiva più forte. Avrebbero riposto con un gesto ancora più potente: sarebbe stata ottenuta la prova principale indicata dall’articolo, Shahu. L’avrebbero portato fino allo sportello di un punto di confine italiano e lì gli avrebbero messo le manette.
Questo lasciava intendere che il portone d’uscita del carcere fosse ben lontano. Era stato arrestato con l’intento di usarlo per indebolire e congedare la denuncia del premier albanese. La cella l’avrebbe ospitato per l’intera durata della lotta tra quelli che lo avevano pubblicamente denunciato come un “padrino” e l’accusato in persona. Il suo destino avrebbe seguito in parallelo il processo dell’uomo forte di Tirana. Se quest’ultimo avesse perso, anche la sua sarebbe stata una fine amara. Se il premier albanese avesse vinto, il suo stesso destino avrebbe potuto essere alleviato, ma anche reso all’improvviso più grave. In un simile contesto la vendetta dei vinti si sarebbe ritorta sulla catena più debole della situazione: lui.
Sentì le tempie battergli forte. Davanti si affacciavano giorni difficili, per cui bisognava calmarsi. Doveva senz’altro dormire.
Mentre tentava di addormentarsi, allontanò dalla mente il dubbio su cui aveva tentato di far luce quella notte: potevano avere un ruolo nell’operazione contro di lui i nemici di uno dei capi dell’Intelligence italiana alla fine degli anni Ottanta, con il quale nel ruolo di vice ministro dell’Interno dell’Albania comunista aveva collaborato in diverse occasioni, ai tempi molto delicate?
“Dormi!” si disse. “Avrai tempo per chiarire l’enigma”. Eppure il sonno non giunse. La storia della conoscenza e della collaborazione con l’uomo importante dei servizi informativi di Roma non poteva abbandonarlo facilmente, poiché non riusciva a scacciare nemmeno il sospetto che il suo collega si trovasse in quel periodo vicino agli americani.
Ora nutriva il dubbio che i rivali degli uffici dell’Intelligence dell’Est, in particolare i russi, incominciassero a vendicarsi delle sue azioni in favore dei progetti geostrategici degli USA in diverse regioni del mondo, tra cui anche i Balcani.
Le notizie sul suo amico le aveva seguite da Tirana. Per quanto ricordasse, risalivano allo stesso periodo dell’articolo su di lui. Il notiziario della RAI aveva annunciato che l’autorità dell’Intelligence italiana era accusata di aver collaborato all’omicidio premeditato di una giornalista della redazione del notiziario del terzo canale della televisione pubblica. Secondo quanto sostenuto, la donna era stata testimone in Somalia di un traffico internazionale di rifiuti tossici, eseguito anche sotto l’attenzione e la tutela dei servizi segreti di alcuni paesi occidentali. Di conseguenza, secondo le supposizioni e un supertestimone, un uomo dei servizi segreti, era stata fisicamente eliminata. Si sosteneva perfino che il testimone avesse sentito l’uomo importante dell’Intelligence italiana annunciare “di aver sistemato quella maledetta giornalista comunista”.
La prima volta in cui aveva ascoltato la notizia sul suo collega di quindici anni prima, gli eventi erano andati diversamente. L’uomo aveva citato in causa il cosiddetto supertestimone, accusandolo di dichiarazioni false.
Degli ulteriori sviluppi Shahu era rimasto all’oscuro.
Tutto gli era tornato in mente poiché acquistava contorni sempre più netti la preoccupazione che gli eventi potessero essere stati causati da uno dei tanti scontri tra i cerchi o gli individui vicini nei due paesi alle file degli americani o dei russi.
Che si ritrovasse involontariamente in mezzo a uno scontro d’interessi geostrategici nella regione?
“Dormi!” ordinò di nuovo a se stesso. Si era risvegliato in lui il cattivo vizio del dubbio fino all’estremo.
Con sorprendente velocità scacciò dalla mente tutti i pensieri. Scomparve ogni tentata parola. E il sonno lo vinse come se fosse caduto in un pozzo profondo.
Al risveglio era l’alba. La prima cosa che vide fu lo schermo di un televisore. Non l’aveva notato durante la notte.
Guardò in direzione del condannato per droga. L’uomo proseguiva a dormire con la testa sotto la coperta. In fondo allo stomaco, come se qualcuno vi avesse introdotto con la forza nella notte un sasso pesante, Shahu percepì un grave peso.
Era il primo giorno di una nuova vita.
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